Nelle sue Lezioni americane, Italo Calvino, scrivendo a proposito della “leggerezza”, interpreta il De rerum natura di Lucrezio come la “prima grande opera di poesia in cui la conoscenza del mondo diventa dissoluzione della compattezza del mondo, percezione di ciò che è infinitamente minuto e mobile e leggero”.
Quella polverizzazione della realtà che si estende agli aspetti visibili, come sostiene l’autore, non è un difetto ma una preziosa occasione per intraprendere una serie di viaggi esplorativi. A nutrirli è il dubbio filosofico sulla fisicità del mondo.
Nella sua arte, Elly Nagaoka sceglie spesso come esordio visivo una fotografia. Qualcosa che ha scattato lei stessa e che tesse una trama di sentimenti contrastanti che si agitano sotto pelle. Ma la riconoscibilità del soggetto originario – che può sovrapporsi con l’immagine dell’artista - subisce una immediata metamorfosi: seguendo il ritmo del tempo fluido della pittura si fa epifania di un corpo estraneo, un altrove che sfugge, per sottrazione di peso, alla rappresentazione. Sono opere figurative quelle che espone Nagaoka in questa sua personale, ma sono anche soggetti (non di rado, autoritratti) che sciolgono la loro compattezza plastica in un puzzle atmosferico. Fedeli allo statuto primario della fotografia rilevato da Roland Barthes - quel riprendere ciò che va scomparendo o già non c’è più, ineffabile e crepuscolare - i dipinti dell’artista sembrano ancorarsi al ricordo, all’idea di un archivio possibile di sé, di un atlante identitario che tende a frantumarsi, a spargere il suo pulviscolo cromatico oltre il confine della cornice.
Non è un caso che in alcuni “frame” di Nagaoka ci sia l’acqua, elemento dissolvente per eccellenza. Né sembra accidentale che diversi dei quadri allestiti presso la Nube di Oort (la mostra è frutto di una collaborazione con Christian Stanescu, il quale con il suo studio-visit e gli incoraggiamenti entusiastici ha abbattuto resistenze e vulnerabilità di fronte al “genere pittura”) abbiano preso forma nel 2020, nell’anno della pandemia, quando la fragilità della condizione umana ha risvegliato in ognuno di noi i propri demoni, lontani e vicini. I titoli di molti lavori assorbono infatti uno stato meditativo intenso, un disorientamento emotivo profondo: Rifugio, Con i fantasmi, Ferita (la cui parola, in giapponese, fa ricorso anche all’ideogramma del “fare, creare”, infondendo al taglio un valore iniziatico di apertura verso il “fuori di sé”), fino a quel verso di Emily Dickinson, I could not prove the years had feet /Non potrei provare che gli anni abbiano piedi, scelto dall’artista per determinare la temporanea presenza dell’essere, sempre sul ciglio della sparizione (“Io sono, da sintomi che sono trascorsi / e sequenze che sono concluse”).
Nella mostra Fragile, ai disegni volatili simili a haiku, ai nuvolari, alle impercettibili interferenze cui eravamo abituati da anni, Elly Nagaoka ha sostituito la solidità della materia cromatica che nasce dalle pennellate ad olio, ma come per un incantesimo l’opacità dei corpi si fa trasparenza, frammento nomade (le gambe), la leggerezza – appunto – finisce per contrapporsi alla forza di gravità mutando il racconto finale dell'immagine. In filigrana (soprattutto nella serie dei disegni-ritratti ad acrilico e nella donna distesa sul letto) vediamo L’abbraccio di Egon Schiele, a volte riaffiora la solitudine cosmica di Edvard Munch in altre opere c'è Lucien Freud senza però quel suo ottimismo sbandierato verso le cose reali. Nell'immaginario lunare di Nagaoka ritroviamo anche la luce che re-inventa, svela e insieme nasconde il mondo di Édouard Manet: un bambino si copre con il vestito nero della madre, come una scultura gemmata da un'altra è inglobato in lei, il cui corpo somiglia a un'architettura protettiva che si fa tridimensionale per giustapposizioni di colori ed effetti flou.
In un grande quadro intitolato Famiglia, a bordo piscina alcune persone sono intente a ingannare il tempo libero con piccoli gesti della quotidianità. Ma c’è qualcosa che disturba l’iperrealismo apparente facendolo emigrare in una inquadratura onirica. In fondo, l’atto del guardare è sempre una scoperta, si scontra con il proprio vissuto, non assumendo mai la prospettiva innocente della percezione. Il sentiero della pittura (così come quello della fotografia) è un pericoloso bilico tra essere e verità.
Dal catalogo della mostra. Roma 2023.
Fragilità incarnata: sulla pittura di Elly Nagaoka
Matteo Di Cinto, 2023
È stata inaugurata Fragile, mostra personale di Elly Nagaoka presso la
galleria la Nube di Oort, Roma, visitabile fino a gennaio su
appuntamento. In questa occasione, l’artista giapponese ricorre ad una
pittura figurativa di grande impatto per indagare il tema della
fragilità umana.
È indubbio: al giorno d’oggi c’è un gran vociare attorno al tema della
“fragilità”. Il discorso contemporaneo, nelle sue strettoie
socio-psico-sanitarie, offre alla fragilità una sagomatura alquanto
frastagliata. Fragile risulta l’uomo del XXI secolo, fagocitato dal
vuoto esistenziale della società post-pandemica, bersagliato da crisi
identitarie e da flebili e conformanti ideali di prestanza fisica e
sociale. Il sentirsi fragile, d’altro canto, è anche rivendicazione di
uno status emotivo altamente sensibile, marchio che ci si cuce addosso
per riconoscere un proprio modo di sentire ed esperire la relazione con
il mondo e con l’altro. Ma fragile, oggi giorno, è anche il
gentile epiteto dietro cui si che spesso lo stigma diagnostico del
disturbo psichico, della decadenza senile e della debilità mentale, e
quindi, in molte occasioni purtroppo, viatico di segregazione ed
esclusione. Tirando le somme, tutte queste declinazioni del sintagma
“fragilità” trovano nell’astrattismo psicologico, nell’intangibilità del
mentale la propria sola e unica matrice, e insistono nel sedimentare una
distanza da tutto ciò che è materico, corporale. In direzione
diametralmente opposta si muovono le opere della mostra
Fragile di Elly Nagaoka, allestita nello spazio intimo della
galleria romana “La Nube di Oort”, a cura di Cristian Stanescu e Arianna
Di Genova. Attraverso una poetica pittorica altamente figurativa,
intrisa di esperienza e tradizione (il richiamo al realismo pittorico
anglo-americano è indiscutibile), e decisa a rilevare la realtà nel suo
impatto nudo, l’artista giapponese, ormai residente da diverso tempo a
Roma, articola una “fenomenologia” della fragilità e della
vulnerabilità, incarnate però attraverso la raffigurazione del corpo
umano. Si tratta di corpi colti in uno stato di abbandonica staticità,
slombati fiacchi e accasciati, pronti a sciogliere, come scrive
l’autrice del testo critico Arianna Di Genova, «la loro compattezza
plastica in un puzzle atmosferico».
In opere come Rifugio, Con i fantasmi e
Senza titolo, si rende ben evidente come il senso di fragilità
non sia un vago stato sentimentale in cui i soggetti sono immersi; esso
non è semplice narrazione emotiva di ciò che accade loro, bensì forza
morfologica che dà origine alla curvatura della loro carne, che
s’incarna in essa e la proietta in uno spazio, anch’esso intriso di
fragile consistenza, evanescente e liquido (Stromboli), o
iperrealistico e statico. Attraverso una pittura incisiva che sa di
fotografia, che insiste sul coglimento dell’istante, Nagaoka tenta
un’operazione ardita: immettere il senso del fragile nell’orizzonte del
visibile e del tangibile, rivelandone l’impatto materico e plastico. Ciò
è reso alla perfezione dall’opera Soushou – Ferita: il suo
sostare sulla visione di un taglio della pelle rimanda istintivamente
alle parole del poeta francese Joe Bousquet, rimasto gravemente infermo
a seguito della Prima guerra mondiale: «la mia ferita esisteva prima di
me, io sono nato per incarnarla». La ferita è delineata non come
cicatrice, orpello nefasto del corpo, ma come taglio-matrice attorno al
quale il corpo stesso si coagula e prende vita. Meritano attenzione due
opere che si pongono come due estremi, due poli di quel
continuum che è insistenza sul corpo. La prima,
Senza titolo, del 2023, rappresenta un infante intento a
coprirsi con il vestito nero di una donna, verosimilmente della madre,
che al contempo gli porge una mano sul capo. In questo caso la
vulnerabilità si annida nell’espressione spaurita del bambino e si
annoda ad un senso di tenerezza e protezione offerto dall’adulto: c’è
bisogno sempre del contenimento e del riconoscimento dell’altro per dar
senso alla propria fragilità; proprio come in un amore dove, per
parafrasare Theodor Adorno in Minima moralia, ci si può
mostrare deboli «senza provocare in risposta la forza». Nella seconda,
Famiglia del 2020, l’artista giapponese fotografa un momento di
oziosa quotidianità in cui però serpeggia un senso di fragilità sinistro
e osceno: la famiglia rappresentata, intenta ad ingannare il tempo a
bordo di una piscina, si configura come un insieme di monadi isolate,
assorte ognuna nel proprio godimento. La fragilità si situa nella
sfaldatura del legame, manifestando invece un’aderenza quasi ossessiva
al vincolo o dell’oggetto o della propria immagine: il computer in primo
piano, il viso assorto del ragazzo davanti allo schermo, incurante della
realtà attorno, il compiacimento della nudità esposto dalla donna, i
suoi contorni ispidi, androgini ci indicano quanto la presentificazione
della fragilità sia anche un guardare altrove, intendere con uno sguardo
acuto e una percezione sottile una realtà che è più reale della realtà
stessa.
Per esprimerlo Elly Nagaoka ricorre ad un cambio repentino di registro,
passando dall’arte sottile e delicata a cui ci aveva abituati, ad una
pittura figurativa di forte impatto. Con un gesto nervoso ma sicuro
coglie, in una serie di autoritratti e figure, un insieme di stati
d’animo, ora di angoscia, ora di inquietudine e disagio. Un disagio in
parte derivato da un affanno collettivo sempre più pervasivo, ma
fondamentalmente uno stato d’animo che esprime una condizione intima di
vulnerabilità e fragilità. Certo, guardando più in profondità emerge
anche una problematica legata al rapporto col proprio corpo e con la
corporeità degli altri. Una parabola del disagio di stare
fisicamente nel mondo, dell’avere un corpo, dell’assecondarlo.
L’abbandono di una certa estetica asiatica a favore di un espressione
più forte dei sentimenti è pero solo apparente. Ad uno sguardo più
attento non sfuggirebbe l’eredità della potente stagione dell’ukiyo-e.
Come nel quadro “Famiglia”, dove, oltre la visione quasi sgradevole di
un intimità non desiderata con i corpi altrui, si coglie nella sua
struttura compositiva la lezione di Andō Hiroshige. Sperimentatore
rivoluzionario, Hiroshige inventa in una serie di sue stampe une
separazione dei piani con, in primo piano, dettagli ingranditi come le
zampe di un cavallo, il pilastro di un ponte, le stoffe ad asciugarsi.
Una soluzione prospettica originale, ma anche condizionante per la
lettura dei altri piani della composizione.
Infine, va menzionato il carattere narrativo dell’allestimento della
mostra, con i quadri che in un certo modo si spiegano l’un l’altro.
Forse un tentativo di mitigare attraverso la narrazione l’inquietudine
insinuante indotta nello spettatore.
Dal catalogo della mostra. Roma 2023.
Elly Nagaoka, UN'ARTISTA | UN'OPERA
Irmela Heimbächer, 2022
"La Finta Giardiniera" 2018-2022
tempera, vinilico, punta d'argento su tela
200x280 cm
Elly Nagaoka, artista giapponese, nata a Los Angeles e cresciuta
tra il Giappone e gli Stati Uniti, ora vive e lavora dagli inizi
degli anni 90 a Roma. Conoscenza e civiltà di queste tre Nazioni
hanno influito e orientato il suo iter artistico, in quanto si è
ritagliata un percorso del tutto originale, attraverso la
riappropriazione e la reinterpretazione dei linguaggi culturali
storici con l'utilizzo delle varie tecniche artistiche, dal
disegno, alla pittura, all'installazione. Una delle sue
installazioni "flight" (400x240cm del 2004) potrebbe
essere sintomatica per l'uso straordinario che fa di materiali e
dimensioni: acquerello su carta, spilli, zanzariera, ventilatore.
L'artista si considera nomade, una giramondo che focalizza la
ricerca della propria identità sulle molteplicità. Ogni opera
sorprende per varietà e complessità, ed è difficile trovare un
filo rosso che percorre la sua produzione. Forse il filo rosso
potrebbe proprio essere quello che apparentemente non c'è: il suo
respiro creativo è l'evoluzione stessa del pensiero creativo che
fa scaturire l'opera anche se necessariamente non raggiunge
completezza, da qui il suo work in process.
E come sostiene Francesco Linguiti:
Elly è interessata a cogliere le suggestioni della realtà che la
circonda - sta allerta, è attenta. Non le importa il punto
d'arrivo, non le interessa l'opera fine a se stessa, ad Elly
interessa il processo creativo - il come arrivare da un punto ad
un altro - il potersi esprimere attraverso le forme, i volumi, i
materiali, le tecniche, le tecnologie, i colori […]"
(Per il
catalogo Exclusiva, pubblicata da Exclusiva Design e
AIAC/Interno 14, maggio 2015, p146-159)
L'imput per "La Finta Giardiniera" in esposizione di Nagaoka è
stato la sua collaborazione da dietro le quinte come capo
traduttrice / coordinatrice della Tv giapponese per la ripresa
dell'opera mozartiana omonima alla Scala di Milano
(settembre/ottobre 2018).
Dal diario di bordo, un foglio A3, con il davanti e il dietro,
dove vengono meticolosamente segnati appuntamenti, orario e
spostamenti di tutti gli operatori tecnici - ognuno con il proprio
colore - durante questi 20 giorni di lavoro è nata l'idea
dell'opera …il suo work in process di 4 anni. Pensiero
fisso, ossessivo per l'estrema carica emotiva e lo stress vissuto,
ecco qui che nasce l'opera che rappresenta forse una sorta di
autoritratto dell'artista.
Dalla necessità di una visualizzazione esatta, puntigliosa della
realtà Nagaoka mantiene il rigido formato tabellare ma ristruttura
il suo materiale in modo aleatorio, tale che evoca una catena di
associazioni di segni che non si limita a contrapporsi alla
riproduzione mimetica della realtà, Il foglio A3 diventa una tela
(200x280cm) con tempera, acrilico, vinilico, punta di argento.
Anche con quest'opera l'artista evidenzia la sua disinvoltura
dell'uso dei mezzi e dei generi, e anche qui l'effetto è
sorprendente: superfici varie liberano un minimalismo
astratto-figurativo, in un insieme di segni opposti, quasi
sovvertiti in una sorta di demistificazione della presunta
obiettività dell'accadersi.
Con questo rimescolamento di segni e colori appartenenti ai più
diversi contesti - dagli ideogrammi giapponesi che fanno da spina
dorsale, alle annotazioni in inglese, alle indicazioni in
italiano, ai numeri, gli appunti, ai segni matematici - l'artista
li libera dai loro nessi semantici e suggerisce una nuova
alchimia: il "nonsense di liberazione", come lo chiamano i
dadaisti. Il risultato è la materializzazione di una sorta di
partitura dove il colore e il tratto ritmico delle suddivisioni
tabellari si dissolvono diventano pura invenzione, diventano
pittura assoluta.
A prima vista "La Finta Giardiniera", dramma giocoso in tre atti,
composto tra 1774 e 1775 da un diciannovenne Wolfgang Amadeus
Mozart per l'antico Salvatortheater di Monaco di Baviera, non ha
alcun riferimento con il lavoro di Nagaoka. Di fronte a un
libretto modesto, insieme a una trama assai banale che si aggira
tra piccola aristocrazia, media borghesia e servitù con i sette
personaggi in cerca dell'amore tra servette arriviste, marchese
credute morte che si celano sotto mentite spoglie, innamorati
respinti e nobildonne gelose, Mozart, però, dà vita a una
partitura raffinata, compone un'opera tra serio e buffo, e con
grande agevolezza crea una riuscita alternanza tra i tanti livelli
stilistici ed espressivi, tra deliziose scene di seduzione a veri
drammi di gelosia, tra inganni, intrighi, parodie e sentimenti
veri. Infine la musica sa scogliere tutti i nodi dei malintesi per
arrivare al lieto fine, al tanto desiderato Happy End.
Il tour de force di 20 giorni che ha accompagnato la messa
in scena e l'esecuzione di "La Finta Giardiniera" è diventato
pensiero ossessivo per Nagaoka provocandole quasi un collasso
fisico per l'emozione straordinaria vissuta in quei giorni
estremamente stressanti, speculare ai colpi di scena, agli
intrighi e inganni rappresentati sul palcoscenico scaligero.
Elly Nagaoka trasferisce questa sua esperienza con un "lavoro
pazzesco" di quasi 4 anni su tela, una tela autobiografica, un
autoritratto dell'artista.
L'opera si fa partitura pittorica parallela a quella mozartiano.
Così la si potrebbe leggere.
Irmela Heimbächer
Elly Nagaoka, UN'ARTISTA | UN'OPERA nello spazio espositivo della
Fondazione Isabella Scelsi da martedì 17 maggio al 31 maggio 2022.
Roma, maggio 2022.
L'eredità materna è un filo rosso
Arianna Di Genova, 2019
[…] Per la giapponese Elly Nagaoka, infine, è la sospensione
mestruale il periodo più interessante da indagare, non senza
ironia: ha dipinto ad olio la frase “sono in menopausa”, e
lasciate in vista le pieghe del pannolino accompagnandolo da una
scritta in rosso in giapponese in cui lo ringrazia “per il lavoro
svolto”. Non solo l’oggetto in sé, ma anche il corpo femminile che
ha così duramente faticato, lungo tutto l’arco della sua
fertilità […]
dal catalogo de Il Sangue delle Donne, a cura di
Manuela De Leonardis, 2019, Postmedia books
Capitolo Doppio
Francesco Linguiti, Roma 2018
Elly Nagaoka e Laura Palmieri si conoscono da molti anni.
Vengono da mondi ed esistenze lontane… l’una dall’altra.
Sono artiste.
Lo sono pienamente.
Nel loro cammino non si sono fermate ad un (uno) escamotage
stilistico - ad un calco, ad un abstract – per poi riproporlo
all’infinito, con variazioni, come formula di consumo.
Quella non è arte, o quantomeno lo è in parte, o meglio ne è
accezione, ma comunque è una logica di arte imbullonata sulla
volontà di costruzione di un brand.
Ecco, loro hanno rifuggito il brand. Punto. Ma hanno sperimentato
nel loro percorso soluzioni e linguaggi: sempre diversi, altri,
dinamici, progressivi ‑ azioni.
Non si sono mai fermate al “qui sto bene, questa cosa mi
rappresenta, mi fermo qui.”
In questo loro percorso le tappe e le soglie sono state molte.
Bisognava sceglierne due. Perché? Come punto di partenza. Per
cosa? Per un doppio sogno.
Ma in che senso?
Partiamo dal titolo.
Doppio sogno. Per noi italiani significa Arthur Schnitzler.
Schnitzler che era uno straordinario scrittore austriaco, un abile
drammaturgo, e anche un medico e un cultore della psicoanalisi.
Lui ha messo a punto la forma canonica del monologo interiore.
Lui, amico o quantomeno solidale di Freud, nel 1924 scrive, ma
verrà pubblicata in seguito, una novella intitolata “Traumnovelle”
– che in tedesco significa novella del sogno. In italiano questo
titolo verrà tradotto con Doppio Sogno.
Certo. Nella sua novella Schnitzler mette in pratica l’assunto
freudiano per il quale i sogni sono la via regale verso
l’inconscio. E lo concretizza nella logica in cui il sogno
rappresenta l’appagamento allucinatorio di un desiderio. Ecco, con
questi strumenti teorici Arthur Schnitzler smonta
meravigliosamente l’istituzione repressiva borghese del matrimonio
come era inteso allora, e lo fa esplodere, ne libera le energie e
le pulsioni. Lo destruttura, lo stressa fino a farlo disintegrare
mediante un crash onirico. Per poi, comunque, accidenti, prenderne
in considerazione la sua propria intrinseca resilienza. Per
migliorarlo.
Tutto ciò… con la mostra di Elly Nagaoka e Laura Palmieri non
c’entra nulla.
Diciamo che per loro il titolo funziona in termini unicamente
letterali – doppio sogno nel senso di un unico sogno… ma che sono
due.
Ma in nulla il DNA di questo doppio sogno visivo attiene
filologicamente al doppio sogno Schnitzleriano.
Detto questo. Ripartiamo da zero.
Quello di Nagaoka e Palmieri è un doppio sogno…nei termini di un
sogno reciproco… meglio ancora di un sogno sincronico…ma inverso.
Nel sogno si parte da un principio di realtà (fittizia) che è il
mondano, ossia il concreto, il quotidiano, il tangibile. Questa
realtà, che di per sé stessa non esiste se non in quanto
“interpretazione”, si trasforma poi, si gassifica, in una
ulteriore realtà, meno concreta ma più vera…fantasmatica - che è
il sogno.
Bene.
Anche Nagaoka e Palmieri partono da una realtà tangibile. Anzi
due.
Sono due soglie succitate, due atti della loro rincorsa
espressiva. Nuvola e animale.
Ci sono in mostra… una nuvola atomica di Elly Nagaoka, un
rinoceronte di Laura Palmieri.
Nuvola e animale sono semplicemente due sillabe del loro discorso
artistico.
Ma sono i due principi di realtà che invertiti serviranno per
inscenare il loro doppio sogno.
La questione è complessa. Elly si fa carico degli animali di
Laura…. Laura si fa carico delle nuvole atomiche di Elly. E così
l’una potrà sognare l’altra.
E allora: Elly disegna animali, e Laura disegna nuvole. Semplice.
Ma qui serve un inciso.
Questa è una mostra, che tranne per un opera, è una mostra di
pittura.
Qui il disegno è inteso in senso pieno ossia il disegno come punto
di arrivo, e non come punto di partenza. Disegno in senso
rinascimentale – opera piena.
Come è vero che per molti giganti della pittura…l’ opera era il
disegno.
Il colore, la pennellata e tutto il resto – la pittura come la si
intende comunemente - rimaneva un meraviglioso divertimento, una
sperimentazione percettiva e scientifica, un grande artificio ad
uso e consumo dei committenti…e della meraviglia dello sguardo.
Ma l’opera, quella profonda, quella ontologica…era il disegno… era
nel disegno.
E così fanno loro.
Prendono due frammenti della loro vita artistica e li intrecciano.
Sogni disegnati.
Ma attenzione.
Questa mostra non è un inno alla citazione. Tutt’altro.
Elly e Laura non si limitano a citare gli stilemi o le forme l’una
dell’altra.
Questa cosa non le interessa.
E non sono neanche parodie. E neanche parafrasi, e neppure
metafore.
Sia chiaro, questo doppio sogno non è un esercizio retorico - ma è
un atto psicologico. Si chiama identificazione.
Elly e Laura in questa mostra non si sono simpatiche e cioè non
vanno alla ricerca di sé…nell’altra. Elly e Laura in questa mostra
non sono empatiche, e cioè non sentono ciò che sente l’altra. Elly
e Laura in questa mostra si identificano l’una all’altra, e cioè,
si fanno carico del tema dell’altra, fino ad essere l’altra, per
poi trasformare l’altra, il suo tema e la sua forma, attraverso il
setaccio del proprio sé, della propria esistenza, e per chi ci
crede della propria anima.
E così…l’una attraverso l’altra…Elly e Laura si dinamizzano…si
trasformano…e trovano un nuovo sé.
Un nuovo sé attraverso l’identificazione al tema altrui.
Nagaoka “usa” gli animali che erano di Palmieri, ma che adesso
sono i suoi, per smettere di aver paura.
Di cosa?
Di una delle più fottutamente complesse e devastanti questioni
estetiche - e cioè? Lo spazio pittorico.
Più precisamente, Elly decide di fare i conti con lo spazio
pittorico.
Signori, per un’artista questa operazione può ridurre
all’impotenza.
Cosa faccio? Ci giro intorno? Faccio una cosa carina che possa
piacere al pubblico? Lo rispetto (lo spazio pittorico)? O lo
considero come una cosa sacra? Lo spazio pittorico è!…una cosa
sacra. Il territorio sacro è quell’habitat alieno dove ogni mia
azione e movimento potrebbe magnificarmi…e perciò portarmi
all’estasi…o distruggermi… e ridurre in polvere. E questo è lo
spazio pittorico. Non è un mostro, anzi lo è. In termini di
mitografia dell’arte. Quanti ne ha uccisi, quanti ne ha fatti
fuori.
Bene. Cosa fa Elly Nagaoka? Fa la cosa più rischiosa. Per nulla
carina, per niente facile, affatto divertente. Fa una cosa
tragica. Sfonda lo spazio pittorico, lo fa esplodere. Ne elabora
una reazione fisica, nucleare, come le sue nuvole.
I suoi disegni irrompono ed erompono non nello spazio della
mostra, ma all’interno dello spazio pittorico del foglio. Dei
fogli.
Elly si libera. Come liberi sono i suoi animali. Non c’è n’è uno
domestico. Non c’è né un cane, né un gatto, né una mucca, né un
cavallo, né una gallina. Gli animali di Elly vivono nei boschi,
nelle foreste, nelle praterie, nelle savane. In spazi che i nostri
antenati preistorici consideravano sacri – come lo è lo spazio
pittorico.
E così Elly si libera delle sue remore. Lo fa grazie a Laura.
Punto.
La prima bomba atomica si chiama “piccolo ragazzo” e viene
lanciata su Hiroshima il 6 agosto del 1945. Uccide 70.000 persone
in un attimo.
La seconda si chiama “uomo grasso”. Lanciata tre giorni dopo su
Nagasaki fa 40.000 morti in un lampo.
Viene da chiedersi… Ma chi è l’idiota che sceglie i nomi?
Palmieri “usa” le nuvole atomiche che erano di Nagaoka, ma che
adesso sono le sue, per smettere di aver coraggio.
Laura prende questo tema – i temi in arte come nella vita sono
pochissimi – il tema della morte. Nella sua magnificenza estetica
del fungo atomico, certo, ma pur sempre della morte. Per farne
cosa? Un feticcio. Di cosa? Di protezione.
Laura della nuvola, indice visibile della reazione a catena
atomica della fissione nucleare, ne fa…un soggetto eroico – ma
lenitivo.
Laura fa i conti con la distruzione, la sogna, la fa sua, la
addomestica.
Come fa Sebastiano del Piombo nel suo ritratto "Ritratto
d'uomo in armi", un olio del 1512.
È un cavaliere in armatura, con tanto di picca in mano! Ma è a
riposo. In fondo in fondo ha un’aria pacifica. Ma allora
quest’uomo forse non ci farà del male – anzi – quest’uomo può non
farci del male. È così dipingendolo, pure se in armi… lo abbiamo
disarmato.
Così fa Laura con le bombe atomiche. Le disarma. Le rende eroiche
come il cavaliere di Sebastiano… ma le mette a riposo. Con
l’ironia. Con l’ironia tragica del suo disegno.
Una bomba addirittura è un battitappeto. Il battitappeto era la
minaccia – la deterrenza che i genitori esercitavano sui bambini
quando la violenza era una formula pedagogica. Buffo no?
Meglio non averla vista una bomba atomica, meglio non vederla mai
vero? E se proprio dobbiamo vederla… trasformiamola in altro. Come
le immagini sacre che venivano appiccicate sul parabrezza o appese
agli specchietti dei tassisti napoletani d’un tempo.
E poi cosa fa Laura. Un piccolo imbroglio.
Mette in una mostra di disegni un’opera che disegno non è. È
ispirata alla poesia “Bomba” di Gregory Corso. Lui la scrisse come
avrebbe fatto un futurista. Dandogli la forma grafica di una
bomba. Leggetela - lì c’è il senso del sogno di Laura. È la
didascalia di tutte le sue opere in mostra.
Insomma.
E così… l’una attraverso l’altra… Elly e Laura si dinamizzano… si
trasformano… e trovano un nuovo sé.
Un nuovo sé attraverso l’identificazione al tema altrui.
È il teorema psicoanalitico dell’innamoramento.
Accidenti. Si potrebbe quasi dire che possiamo accomunare e
mettere in relazione questo loro doppio sogno… alla funzione del
Doppio Sogno di Fridolin e Albertine – i protagonisti della
novella di Schnitzler.
E allora andrebbe cancellata o riscritta una bella parte di questo
testo.
19 aprile 2018
Stanze. Ci sono cieli dappertutto
Beppe Sebaste, Narni 2016
[…] Da tempo credo molto seriamente che
Punto Linea Superficie, come titolava il
famoso libro di Kandinski, sia la rappresentazione più esatta
della realtà. Diceva Gilles Deleuze:
Fare la linea, non il punto. E se la
linea è un punto che è andato a fare una passeggiata,
una stanza è un luogo in cui qualcuno entra per cercare una via
d’uscita: da questa premessa prende forma il lavoro leggiadro di Elly
Nagaoka. Perché è vero che l’arte è anche evasione, e l’evasione,
insegnava Lévinas, nasce da un bisogno di eccedenza: eccedere ciò
che ci trattiene, che fissa la nostra identità, tutto ciò che
sentiamo come prigione da cui occorre uscire. […]
19 aprile 2018
Processo
Francesco Linguiti, Roma 2015
Elly Nagaoka non vende le certezze. È convinta che l’opera finita
sia spesso estranea e talvolta in contraddizione con quanto
l’artista sentiva o voleva esprimere inizialmente.
Elly si risolve nell’azione e nell’agire. Il suo lavoro quotidiano
è rigoroso, a tratti maniacale, quasi autopunitivo. Non le
interessa tribuire l’importanza a ciò che fa, e neanche le
interessa levargliene. Si nasconde – non ama apparire – non è
narcisista – il suo modo è il pudore. Elly è interessata a
cogliere le suggestioni della realtà che la circonda – sta
allerta, è attenta. Non le importa il punto d’arrivo, non le
interessa l’opera fine a se stessa, ad Elly interessa il processo
creativo – il come arrivare da un punto ad un altro – il potersi
esprimere attraverso le forme, i volumi, i materiali, le tecniche,
le tecnologie, i colori. Elly non vede la meta, ma sente il
percorso. È l’artista del processo e del procedere. Il processo dà
la forma. La forma è data dal processo. Certo, sono
interdipendenti; ma per Elly Nagaoka, il processo è il risultato.
Processo è il momento in cui le sue idee e i suoi pensieri devono
confrontarsi con il mondo esterno, con il mondo fisico, con la
vita, con il quotidiano suo e di tutti. Per questo le sue opere
hanno talvolta un ritmo interno iterativo. Presentano somme di
ripetizioni con piccoli scarti che sono testimonianze della
transitorietà, delle impercettibili mutazioni di forma e di
contenuto del reale. Un reale immaginario sempre riprodotto in
levare – a togliere. Dando voce solo all’indispensabile, con forme
leggere e rarefatte, fino al punto, spesso, da raccontare e
descrivere soggetti, forme e concetti
in absentia.
Una volta le ho chiesto di trovare l’elemento comune che connette
le sue opere. Ma trovarlo… per lei… è una specie di costrizione, o
una maledizione impostale dai critici e dai cataloghi. La verità è
che Il punto di contatto di tutte le opere di Elly, il segno che
le raccorda in un insieme comune, non è dato né da forme, né da
materiali, né da stili comuni, ma è dato da qualcosa che non è
nella superficie delle opere, ma nelle loro strutture profonde. Di
cosa stiamo parlando? Del dubbio. Il dubbio - l’emersione del
dubbio, il dubbio che la realtà impone, e la ricerca sul come
riuscire ad uscire, forse, dal dubbio attraverso l’espressione
artistica. Ma se voi glielo diceste, lei vi risponderebbe:
«Perché!? Spiegami? E comunque l'artista può voler fare ciò
che vuole ma nella maggior parte dei casi fa ciò che può.»
(per il catalogo Exclusiva, pubblicata da Exclusiva
Design e AIAC/Interno 14, maggio 2015, p146-159)
Nagaoka Palmieri: #0 (Storia dell'Europa dal punto di vista delle
piante)
Tanja Lelgemann, 2015
Piante delle varietà più diverse fluttuano liberamente nello
spazio, qualche volta si intrecciano creando innesti inaspettati,
ed è solo a una più attenta osservazione che questi raffinati
disegni rivelano la loro identità sulla superficie dei tre rotoli
di carta, idealmente infiniti, che trasformano lo spazio della
galleria Monty&Company in un terreno di sperimentazione per Elly
Nagaoka e Laura Palmieri. Con il progetto
#0 Storia dell’Europa dal punto di vista delle piante
le due artiste ci mettono a parte di un loro intimo dialogo
mentale e visivo - nato molti anni fa e finora non mostrato in
pubblico - che si sviluppa intorno all’universo delle piante.
Un’osservazione meticolosa e quasi scientifica del mondo che ci
circonda e dei relativi fenomeni antropologici accomuna le due
artiste ed è alla base dell’approccio creativo di entrambe. In
quest’ottica la scoperta della proteina Rodopsina, presente nelle
piante come motore della fotosintesi, ma presente anche nella
retina dell’occhio umano, è il punto di partenza del progetto in
quanto evidenzia un’origine comune di piante e esseri umani.
Il progetto è nato nel 2014, a duemila anni esatti dalla morte
dell’Imperatore Augusto. Ed è stato il celebre affresco parietale
della Villa di sua moglie Livia (oggi custodito a Palazzo Massimo
alle Terme), in cui appaiono ben ventitré specie vegetali che
fioriscono contemporaneamente (e che costituisce un magnifico
catalogo di piante ancora oggi presenti in Europa) ad aver fornito
a Elly Nagaoka e Laura Palmieri l’impulso per questa comune
avventura creativa.
Amiche nella vita e nell’arte, le artiste non hanno mai lavorato
prima d’ora come “duo”, e i loro
modus operandi molto differenti
testimoniano le loro diverse origini artistiche. Con il segno
calligrafico fine e raffinato, Elly Nagaoka si rifà alla cultura
giapponese, che combina nell’impostazione di lavori di diverso
genere, dal disegno alla scultura all’installazione, con una
concezione postmoderna di stampo occidentale derivata dalla sua
formazione statunitense. Per Laura Palmieri invece è stato
fondamentale l’incontro con l’astrattismo italiano del dopoguerra
per sviluppare un linguaggio del tutto originale in cui si fondono
mezzi pittorici tradizionali e nuovi media.
In entrambe le artiste è totale l’autonomia della visione
creativa, come lo è l’indipendenza del pensiero che colloca i loro
percorsi individuali al di fuori di scuole o correnti e li sottrae
a una precisa classificazione. La disinvoltura nei confronti dei
mezzi e dei generi, insieme a uno spiccato senso minimalista,
evidenti sia nel segno grafico di Elly Nagaoka che nella
predilezione per gli interventi di svuotamento che caratterizzano
le opere di Laura Palmieri, sono aspetti che accomunano il loro
lavoro.
In occasione di questo primo progetto realizzato insieme le due
artiste si sono poste l’obiettivo di sdoganare qualsiasi cliché,
quello per esempio del disegnare una pianta o un fiore come
attività legata tradizionalmente alla figurazione e persino alla
pittura amatoriale, per affermare che la distinzione tra
figurativo e astratto è esaurita e forse mai veramente esistita
per quegli artisti per i quali l’esigenza creativa prevale su
tutto. Elly Nagaoka e Laura Palmieri si lasciano dunque alle
spalle la propria storia per addentrarsi nell’universo delle
piante, dando una forma visiva del tutto libera e nuova alle loro
riflessioni, al “dietro le quinte” del loro dibattito pluriennale.
La sequenza di elaborazione determina per ciascuno dei tre rotoli
di carta uno specifico carattere, che corrisponde alla fase
creativa e al continuo sviluppo stilistico del duo artistico e
delle loro attività quotidiane. Il primo rotolo esprime
l’entusiasmo iniziale e dimostra un approccio scientifico alle
piante descritte negli erbari. Nel secondo rotolo si manifesta una
certa stabilizzazione stilistica, una profonda concentrazione
nella composizione delle figure, che porta con sé l’emergere di
specie osservate direttamente in natura, come il lauro e la
magnolia. Una superficie del tutto mossa e vivace caratterizza il
terzo rotolo - che con le sue circa duecentottanta piante risulta
il più esuberante – nel quale si giustappongono diversi livelli
determinando una trama delicata in cui zone scure e dense si
alternano a elementi più lievi, quasi trasparenti. La prospettiva
è cambiata rispetto alla fase iniziale: siamo davanti ad un quadro
apocalittico che suggerisce un finale nel quale ritornano alcuni
elementi del giardino di Livia come l’edera e l’alloro.
Elly Nagaoka e Laura Palmieri affrontano con disinvoltura il mondo
delle piante, dei fiori e degli alberi utilizzando il disegno,
grafite, pennino e china, e rompendo un tabù. Liberano per così
dire il decorativismo spingendo verso l’assurdo quella formazione
classica ottocentesca propria per esempio degli artisti francesi
ai quali, per ottenere il “Prix de Roma” e dimostrare la loro
perizia nel genere del paesaggio, veniva chiesto di raffigurare
nel dettaglio uno specifico albero. Le nostre artiste trasformano
quei cliché in una sfida in cui uno stesso elemento è realizzato
da entrambe, una inizia il disegno, l’altra lo conclude, dandosi
sempre più spesso il cambio man mano che la raffigurazione diviene
più dettagliata e quindi complessa. L’alternarsi nella soluzione
di uno stesso problema diventa allora un modo in cui risolvere le
molte crisi che un’attività artistica consapevole necessariamente
impone. La complementarietà delle due è dunque anche la loro
forza, ed è il mezzo con il quale ottengono risultati nuovi e
originali.
28 novembre 2015
Cloudy
Arianna di Genova, 2014
È nuvolosa Elly?
Oppure ha semplicemente la testa fra le nuvole?
E i suoi occhi si rannuvolano mai?
Ha pensieri soffici e candidi, o plumbei e opachi? Il suo futuro è
forse nebuloso?
Chiunque si piazzi a cavalcioni delle nubi, muoverà passi
traballanti fra due mondi: la leggerezza di ciò che svanisce e la
pesantezza della materia. Soprattutto, farà i conti con
l’inafferrabilità delle cose, imparerà ad apprezzare un movimento
repentino e ingannevole che lascia aperti e sfilacciati i contorni
della realtà. I più temerari ne rispetteranno l’ambiguità e non
proveranno mai a ridurla dentro steccati geometrici. Così, anche
l’atlante del cielo di Elly Nagaoka, quel suo calligrafico
avvicinarsi a lillipuziane concrezioni di elementi naturali (un
mix magico di aria/acqua) finisce per non avere una forma
definita. Nel suo allontanarsi e assottigliarsi, quell’atlante
schizzato sui fogli, piuttosto che rimarcare frontiere e segnalare
percorsi, fa presto a divenire un ricordo. Viaggia insieme alla
volatilità dello sguardo e alla fretta del tempo. Specchiarsi fra
le nuvole e poi interrogarsi sullo scorrere delle ore, delle
stagioni, della vita che inciampa nei giorni. E’ un lavoro per
artisti-filosofi. Oppure un gioco per bambini, tutto da vivere con
il naso all’insù. Proprio come non ti bagnerai mai in un punto del
fiume con la stessa acqua, non potrai mai osservare il medesimo
disegno del cielo.
La mappatura di uno spazio di vapori - che sia fotografato
ripetutamente e in sequenza, ripreso dal vero nelle porzioni che
si intravedono dalla finestra di casa, studiato
en plein air, in campagna - sfugge a ogni ansia
di classificazione. Non c’è geografo in grado di decifrare quello
slittamento perpetuo e i suoi confini mobili. Un intellettuale
raffinato come Fosco Maraini aveva provato a “metterle in riga” le
nuvole, ma si era divertito a sognare. Con un libro sorprendente
come il “Nuvolario”, si era lanciato in una sorta di inventario
pseudoscientifico, immaginando una nimbologia fantastica
e imprendibile, un catalogo improbabile costruito con pagine di
caligine. Non si può, infatti, archiviare nessuna fetta di cielo.
La scrittura celeste è un alfabeto segreto: lo sapevano gli
astronomi antichi che offrivano nomi conosciuti a galassie
sconosciute per orientarsi fra le stelle, lo sa bene Elly Nagaoka
quando cerca di intrappolare lettere, silhouettes, simboli e
insegue minuscoli segni oracolari nei loro nascondigli aerei.
L'hanno sempre saputo anche i pittori e i poeti di ogni epoca
quando, a quei batuffoli ovattati, hanno affidato la loro
malinconia per gli amori perduti. Fin dal principio della Storia,
le nuvole non sono mai state soltanto una condensa di rugiada…
Chiunque ne abbia cercato le coordinate, inevitabilmente le ha
perse durante il percorso. Anche Elly vive la dimensione
dell’acchiappanuvole.
È un rompicapo meraviglioso, il suo. Le fotografa quando passano
di soppiatto, le ridisegna a memoria mentre il vento se le porta
via. Per lei, il valore informatico di una qualsiasi
cloud del web non esiste. Il territorio
virtuale è troppo profano. Le nubi, con la loro foschia e assenza
di umori trasparenti, con quel caratteristico avvolgimento
flou dei sensi, arrivano quasi in punta di
piedi, in silenzio, dopo gli anni delle esplosioni e i loro rombi
sottintesi. Forse i pensieri di Elly tuonavano già da allora,
sprofondavano nella meteorologia incerta di nuvole brumose. Sono
soggetti in contrasto, le esplosioni e le nubi? Non proprio. In
quel deflagrare di funghi velenosi che si sollevavano dalla terra,
trascinando con loro distruzione e morte, Nagaoka aveva voluto
raccontare un’improvvisa negazione dell’essere-mondo, la censura
totale del paesaggio: erano frames che
congelavano l’orrore, nonostante la «forma» fosse ambigua e
somigliasse in maniera impressionante alle gemme dei fiori in
pieno sboccio. Poi, qualcosa è mutato ed Elly ha cominciato a
camminare sulle nuvole. In quella nuova posizione, ha cambiato
anche la prospettiva del suo sguardo. Subito, si sono presentate
geografie inedite, cartografie sentimentali, percezioni fluide.
L’universo da esplorare era, adesso, quello degli azzardi ottici.
Dopo i piedi, Nagaoka ha spinto anche la testa fra le nuvole. Era
arrivato il tempo per lei di osservare il cielo quando non è
oscurato da ordigni, ma messo in ombra da sottili e zuccherosi
veli di acqua. Eppure, le clouds di Elly, a
volte, sono rosse come il sangue. Gocciano, colano carnalità.
Dimenticano la loro vaporosa esistenza e si raggrumano in chiazze
di colore vivace e intenso. Rimangono sospese a mezz’aria, ancora
poco terrestri e creature molto celesti. Sono incendiarie come il
tramonto, grondano pigmenti cromatici come le aurore. Si mescolano
alchemicamente al liquido vitale che scorre nelle vene.
La nuvola è un’energia – scrive Gilles Clément –
la sua comparsa corrisponde al cambiamento dello stato
dell’acqua. Dallo stato di vapore, invisibile, al contatto con
l’aria fredda, l’acqua passa allo stato di microgoccioline.
Questo mutamento libera calore. L’evaporazione, cambiamento
inverso, ne consuma… Il nostro corpo può essere considerato come
una macchina per cedere e riprendere energia, a partire
dall’acqua che contiene e lo circonda”.
Ecco. Perché le nuvole siamo noi.
Quando il découpage è zen
Arianna Di Genova, Il Manifesto, 4/03/2010
Un cervo guarda lo spettatore dall'alto di un tavolo old style. E
poi, c'è una forbice che galleggia nell'aria aprendosi verso
l'ignoto, una lampada che ruba lo spazio in primo piano, un fiore
che s'inerpica su per il foglio. Sono i soggetti straniati della
serie Created Desires (sessantasei «miniature» che classificano
gli oggetti selezionati da riviste patinate, inserendoli in un
mondo alla rovescia), un folto insieme di personaggi finiti per
caso insieme «a cena», in un banchetto apparecchiato grazie ai
découpage dai toni surrealisti dell'artista Elly Nagaoka. Nata a
Los Angeles e cresciuta fra il Giappone e gli Stati uniti, Nagaoka
oggi vive e lavora a Roma e presso la galleria Monty & Company
(via della Madonna dei Monti 69) presenta, fino al 20 marzo, oltre
a questo ultimo ciclo di lavori, anche l'installazione Disciplined
Fall (acquerello su carta, spilli, zanzariera, ventilatore).
Paper, la personale dell'artista punta proprio sul medium
cartaceo, un supporto così «intimo» alle alchimie culturali del
Giappone. Qui, Elly Nagaoka gioca con i vuoti e i pieni,
espandendo le linee e cercando un ritmo musicale nelle impronte
irreali, minimali, mai «fisiche», che si propagano sulla
superficie. Sullo sfondo, c'è la grande scuola della calligrafia
del SolLevante, spogliata però della sua austera forma e
rivisitata in veste ludica e più libera. Dal découpage che
ritaglia le silhouettes al disegno zen, si dipanano quei fogli
leggeri e trasparenti come libellule e intanto a spezzare la
geometria del segno insistito può passare una sagoma improvvisa di
aereo in volo.
Paper
Ilari Valbonesi, 2010
Dove inizia il viaggio dell’immaginazione? E in che direzione va?
Ce lo chiediamo di fronte ad un cammello che appare in uno dei 66
collages created desires di Elly Nagaoka. Elemento
portante della sequenza in opera è la carta, in tutte le sue
declinazioni formali e sedimentazioni temporali: il foglio di
supporto, la pagina della rivista patinata di un settimanale, di
un mensile o di un giornale, da cui l’artista ritaglia le figure.
Le stesse che poi ritornano su carta in forma di collage. Sequenza
di ritagli, per una rigorosa esperienza - di carta e
su carta - di un agire quotidiano dell’occhio, che giorno
dopo giorno sfoglia il mondo con lo sguardo e con le mani,
ritagliando e mescolando migliaia di immagini che provengono dai
luoghi e tempi più disparati. Sono découpage di una
temporalità fluente della coscienza: qualcosa attrae lo sguardo,
colpisce l’attenzione, a cui segue la risposta paziente della mano
che ritaglia il contorno. Lo sguardo si fa taglio e
contemporaneamente icona: emblematico il collage che
ritrae delle forbici per carta, chiasma di questa nuova
riflessività tra sguardo e tatto. Dov’è il cammello? E dov’è il
mio corpo?
La selezione dei ritagli che aprono il mondo di
created desires sono ritagli di un impossibile
quotidiano: possibile nella vista ma inaccessibile alla gravità
del corpo. Sono esperienze fragili, così come è fragile il loro
supporto e ineffabile l’esperienza estetica. Sono fenomeni di
coscienza più vicini alla seduzione Iki, nel bagliore di
uno sguardo in tralice, che rompendo leggermente l’equilibrio
unitario instaura una dualità tra materia e forma. Portante è
infatti la verticalità della composizione, dove lo sguardo viene
catturato, senza confluire in un punto preciso: “nelle righe
verticali si avverte la leggerezza della pioggerellina e delle
fronde di salice ( ryujo) che cadono assecondando la
gravità” 1 . Sedute, divani,
lampade, fiori, animali diventano le presenze discrete di una vita
silenziosa che scorre tra esterno e interno. Gli elementi di
arredo vengono infatti catapultati in questo intermezzo, per
ritrovarsi in accordo con la natura animale: un uccello sul letto,
una rana sul divano, una lumaca che vola, un cervo che si
specchia, un pesce incoronato. E poi fiori e limoni, un aereo che
passa, un diamante. Fino a presenze più automatiche come le
macchine, i computer e altre sparse icone pop.
È la messa in scena di una relazione etica portata al grado zero
della narrazione: un contatto con il sé come altro attraverso una
dislocazione dei sensi. Perché i piani di questa esperienza sono
estrinsecati. Non c’è più un interno o un esterno. Tutto si piega
e si rispecchia nella ricomposizione arbitraria di chi guarda. Le
figure accadono sul foglio come forme retroattive della coscienza.
Agiscono come centri di attenzione, lasciando libero lo sguardo di
fluttuare nello spazio, così come le stesse forme sono libere di
attrarsi ed entrare (o meno) in dialogo. La lingua per Ferdinand
de Saussure è infatti paragonabile ad un foglio di carta: il
pensiero è il recto, il suono è il verso, e non si può ritagliare
l’uno senza ritagliare contemporaneamente l’altro. Ma come tutti i
giochi di carta ci sono anche le regole. Sono le regole del
linguaggio, che assomigliano al gioco di scacchi. Dove la
posizione di un pezzo sulla scacchiera può essere descritta senza
conoscere quelli che sono stati i movimenti precedenti. Così come
per le centinaia di libellule che atterrano disciplinate sulla
scacchiera bianca disciplined fall: parti animali,
esercizi di memoria, fragili suoni, commutabili e solidali nella
presenza simultanea. Un’esperienza erotica, di somiglianze e
differenze, che andrebbe assaporata con le mani, con le orecchie e
con gli occhi.
Paper finisce qui. Ascoltando le parole di un celebre
scacchista, il signor Marcel Duchamp, campione dell'Alta
Normandia, ricordato per il suo gioco profondo e solido, la sua
freddezza imperturbabile, il suo stile ingegnoso, e che in una
lettera del 1919 scrisse: “dipingo per vivere ma vivo per giocare
a scacchi”.
Roma, febbraio 2010.
1 Kuki Shuzo,La struttura dell’Iki. Adelphi, 1992, p.101
Elly Nagaoka is a Japanese artist living and working in Rome. She was
born in California, USA, raised in Tokyo and she obtained her BFA from
the Rhode Island School of Design (USA) in painting and printmaking.
Her research focuses on the concepts of identity as a nomadic subject
to investigate its multiplicity. She formalizes her projects through
drawings, paintings and installations.
Her works have been presented in both institutional and independent
spaces such as the CIAC, Genazzano; Monserrato Arte '900 Gallery,
Rome; Macro Asilo, Rome; The Galleria Lettera_E, Rome; gramma_epsilon,
Athens; Austrijski kulturni forum, Sarajevo.